sabato 28 luglio 2018

DISABILI GRAVI DA TRE MESI SENZA CONTRIBUTI


Da 90 giorni il Comune di Assemini non versa i contributi della Legge 162, finalizzata a sostenere i piani personalizzati di sostegno alle persone in situazione di disabilità grave. È questa la sintesi della denuncia che una delegazione di cittadini ci ha chiesto di rappresentare pubblicamente al Sindaco.

I cittadini lamentano un continuo rimpallo tra un ufficio comunale e l’altro senza che si giunga alla soluzione del problema. Stando agli atti pubblici, risulta che la Regione sarda abbia già liquidato e versato le somme ai comuni. Lunedì prossimo un comitato spontaneo di cittadini, in rappresentanza delle oltre 600 famiglie interessate, si presenterà per l’ennesima volta presso gli uffici delle politiche sociali per manifestare il loro sconcerto e la loro evidente difficoltà. Non intendono procedere con una diffida - come previsto dalla stessa legge – ma intendono porre fine a questa drammatica ed inopportuna odissea.

La Legge 162 pone l’obbligo di pagamento ogni mese ed ha come obiettivo quello di ridurre il disagio del paziente e dei suoi familiari. Un obiettivo che non può essere ostacolato dalla burocrazia. Purtroppo, ad Assemini, i tempi tecnici tra calcolo delle competenze e versamento dei contributi supera i 25 giorni medi. Sono troppi, anche rispetto agli altri comuni. Anche questa volta sono stati ampiamente superati.

Ci rivolgiamo alla sensibilità del Sindaco di Assemini (ci perdoni se non ci conformiamo alle moderne denominazioni) affinché faccia luce sulla questione e ponga in essere ogni atto possibile per dare risposte certe già dal prossimo lunedì.   

venerdì 27 luglio 2018

PREVIENI GLI INCENDI

L'immagine può contenere: cielo, testo e spazio all'aperto

La prevenzione è il primo passo per contrastare gli incendi.

Le prescrizioni costituiscono lo strumento per evitare l'innesco di incendi e per disciplinare l'uso del fuoco durante l'intero anno, a beneficio dei cittadini, turisti ed operatori del mondo delle campagne.

"IS OLIAS", ASSEMINI TORNA SOVRANA

Risultati immagini per is olias assemini


Apprendiamo con soddisfazione la notizia da cui emerge la revoca della procedura finalizzata all’affidamento del parco naturalistico di “Is Olias” da parte del Comune di Capoterra, in seguito alla richiesta formale avanzata dal Sindaco del Comune di Assemini (clicca per leggere l’atto: Revoca)

Riteniamo che la scelta dell’attuale Sindaco di Assemini restituisca alla Città il suo ruolo sovrano. Auspichiamo che nei prossimi giorni venga attivata un’analisi articolata delle prospettive del complesso turistico per assicurarne lo sviluppo senza eludere chiarezza e rispetto delle parti. Auspicio che riteniamo debba partire dall’affermazione del Primato della politica rispetto ad ogni altra logica.

Cosa era successo?

Il giorno 11 luglio 2018, il Comune di Capoterra (Area Metropolitana di Cagliari) pubblica nel proprio Albo pretorio l’avviso di manifestazione  di  interesse  per  l’espletamento  di  una procedura  negoziata  finalizzata all’affidamento  dell’appalto  del servizio  di  concessione  del  “Parco  naturalistico  Is  Olias    centro  turistico  ricreativo”  ricadente  nel  territorio comunale di Capoterra e Assemini, facenti parte della ex Comunità Montana n. 23”. Un scelta surreale nel metodo e nel contenuto.

Dalla lettura della documentazione pubblicata, rileviamo alcuni aspetti che destavano non poche perplessità. In particolare:

  •           la durata ventennale;
  •         l’importo del canone annuo pari a 8 mila 750 euro (meno di 730 euro mensili). Precisiamo che le opere necessarie all’avviamento sono state stimate in euro 174 mila 636, interamente da stornare dall’importo complessivo del canone ventennale dovuto (175 mila euro);
  •           la destinazione esclusiva a professionisti affermati;
  •           i tempi di espletamento e consegna della pratica (entro il 31 agosto 2018);
  •         il ruolo di Assemini relegato a mero destinatario (virtuale) della metà del canone  (non risulta nemmeno traccia dell’avviso nel proprio Albo pretorio);
  •           l’ampia discrezionalità a favore dell’appaltante rispetto ai potenziali destinatari.


Riportiamo il testo integrale dell’avviso:

Trattasi, infatti, di un complesso naturalistico di 230 ettari, attrezzato e ricadente per il 60% in territorio Assemini, con: servizi, ristorazione, albergo, aree sosta camper, alloggio indipendente e tanto altro costato alla collettività oltre 7 milioni di euro.

Abbiamo considerato dannosa la scelta del Comune di Assemini di cedere la sua sovranità sull’area, sacrificando l’utilità per i suoi cittadini che hanno pagato le tasse per la realizzazione di tale complesso. Inoltre, abbiamo ritenuto molto grave che siano state escluse nuove proposte imprenditoriali visto che aver operato nel settore per almeno tre anni non significa affatto aver operato bene.

Infine, abbiamo chiesto che, a fronte delle reali potenzialità anche occupazionali offerte dal complesso, di sospendere la procedura, analizzarla seriamente e riproporla con cognizione di causa e rispetto.

C'E' CHI ANNEGA ANCHE LONTANA DAL MARE

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Possiamo anche scegliere di vivere comodamente in una realtà artificiosa, modellata cancellando tutto ciò che non ci piace. Ma, fuori da questo mondo, tutto continua imperterrito secondo una logica diversa.


Anche questo è Assemini e lei continua ad aver bisogno di aiuto!

RIPORTA A CASA LA TUA IMMONDIZIA



Non vogliamo più convivere con l'immondizia 

PEGGIORA LA SANITA' SARDA



Scene di disperazione come quelle di Assemini si stanno verificando ovunque.

Quei soldi servono per acquistare i farmaci senza esenzione e per assicurare i percorsi di inserimento.


domenica 22 luglio 2018

PIANTIAMO ALBERI DAPPERTUTTO E SALVIAMO QUELLI CHE CI SONO



Sono essenziali per la nostra salute, per la bellezza e l’ombra. Grazie agli alberi nelle aree verdi in Italia, vengono assorbite 12 milioni di tonnellate di CO2.



Da anni non si piantano più alberi così come non si sostituiscono quelli che cadono. Manca la cultura del verde e la consapevolezza delle sue grandi qualità. Una distanza immensa rispetto ad altre città. Eppure, cresce la consapevolezza tra i cittadini che saranno gli alberi a fare la differenza nella qualità della vita delle aree urbane.

Ci vogliono alberi, tantissimi alberi. E dobbiamo piantarli tutti con criterio, privati e amministrazioni pubbliche e non sprecarne nemmeno uno.  La natura è talmente perfetta e generosa da avere assegnato a ciascun albero specifiche proprietà anti-smog, anti-inquinamento o per darci fresco e aria pulita.

Un albero di acero, per esempio, nel corso dei cinquant’anni del suo ciclo vitale, è in grado di immagazzinare qualcosa come 6 tonnellate di anidride carbonica. Una quercia arriva a 5,5 milioni di tonnellate. Le piante sono la prima risposta contro l’inquinamento che devasta le nostre città e l’aumento delle polveri sottili.


Gli alberi possono salvarci, ma è necessario che Comune e cittadini trovino le sinergie per stimolare la cura e la piantumazione di alberi. Non solo: colorare la città con fiori e piante per costruire bellezza. 

TIENI PULITA LA CITTA'


Non si può continuare a vivere nel degrado.

L’abbandono di deiezioni animali sui marciapiedi, sui prati e nelle aiuole dei giardini pubblici destinati alla ricreazione ed allo svago, mettono a rischio il decoro e la salute pubblica, con particolare riferimento alle fasce più esposte, quelle dei bambini. 

martedì 17 luglio 2018

UN REGALO DI NOME "IS OLIAS"




Il giorno 11 luglio 2018, il Comune di Capoterra (Area Metropolitana di Cagliari) ha pubblicato nel proprio Albo pretorio l’avviso di manifestazione  di  interesse  per  l’espletamento  di  una procedura  negoziata  finalizzata all’affidamento  dell’appalto  del servizio  di  concessione  del  “Parco  naturalistico  Is  Olias    centro  turistico  ricreativo”  ricadente  nel  territorio comunale di Capoterra e Assemini, facenti parte della ex Comunità Montana n. 23”.

Dalla lettura della documentazione pubblicata, abbiamo rilevato alcuni aspetti che destano non poche perplessità. In particolare:

  • la durata ventennale;
  • l’importo del canone annuo pari a 8 mila 750 euro (meno di 730 euro mensili). Precisiamo che le opere necessarie all’avviamento sono state stimate in euro 174 mila 636, interamente da stornare dall’importo complessivo del canone ventennale dovuto (175 mila euro);
  • la destinazione esclusiva a professionisti affermati;
  • i tempi di espletamento e consegna della pratica (entro il 31 agosto 2018);
  • il ruolo di Assemini relegato a mero destinatario (virtuale) della metà del canone  (non risulta nemmeno traccia dell’avviso nel proprio Albo pretorio);
  • l’ampia discrezionalità a favore dell’appaltante rispetto ai potenziali destinatari.

Riportiamo il testo integrale dell’avviso:


Trattasi, infatti, di un complesso naturalistico attrezzato con: servizi, ristorazione, alloggi, aree sosta camper, alloggio e tanto altro.


Ci chiediamo quale sia l’utilità per il Comune di Assemini e per i suoi cittadini che hanno pagato le tasse per la realizzazione di tale complesso. Inoltre, perché siano stati escluse nuove proposte imprenditoriali visto che aver operato nel settore per almeno tre anni non significa affatto aver operato bene. 

Riteniamo che, a fronte delle reali potenzialità anche occupazionali offerte dal complesso, sarebbe bene sospendere la procedura, analizzarla seriamente e riproporla con cognizione di causa e rispetto.


domenica 15 luglio 2018

TRA RAZZISMO E ANTI-RAZZISMO MUOIONO LE IDENTITÀ




Partiamo da un caso di cronaca: una ragazza statunitense pubblica sul suo profilo social alcune foto in cui lei indossa un bell’abito da sera ad una festa (il cui dress code richiede una certa eleganza).

Accanto ai complimenti sotto alle fotografie appaiono però alcuni commenti più critici, diciamo pure che viene insultata: la sua colpa è quella di indossare un vestito tradizionale cinese, simbolo dell’emancipazione femminile, senza sapere il significato, mancando di rispetto all’intero popolo cinese.

E per non farci mancare niente, viene pure accusata di appropriazione culturale e di piegare un abito simbolico al puro edonismo simbolo dalla società capitalista e consumista americana. Alla fine, nonostante l’attacco vile e senza senso, quelle foto rimangono sul suo profilo: perché quel vestito le piace, e non sarà certo quella cattiveria gratuita sui social a costringerla a cambiare idea.

Di fronte a questa vicenda si rimane perplessi. Da parte sua non c’è stata alcuna palese o quanto meno volontaria mancanza di rispetto verso la Cina, vivendo in una società in cui il consumo è la cultura prevalente a discapito del retaggio tradizionale e storico anteriore - che è quello dei singoli e rispettivi popoli - ed è dunque normale non essere a conoscenza che certi accessori e oggetti rimandino ad un evento o ad una vicenda di fondamentale e storica importanza per una nazione, com’è il caso dell’abito della ragazza.

Lei è rimasta vittima di due tipi di ignoranza: la sua, involontaria e di cui abbiamo appena parlato; quella del popolo dell’etere che l’ha accusata di un non ben esplicito o implicito razzismo. Non si è voluto vedere il contesto in cui il vestito è stato indossato: un ballo, una festa, un prom (all’americana). Si voleva attaccare qualcuno, negando a priori il dialogo, facendo prima di tutto gruppo: è normale prassi accerchiare l’avversario, isolandolo, per poi sbranarlo.

È la vigliaccheria presente nel mondo moderno, è la voglia di negare il dialogo. La tragica ironia della società contemporanea che si dichiara e sventola la bandiera della democrazia e del liberalismo: accusare chiunque di razzismo, o di fascismo come di omofobia, è lo strumento migliore per delegittimare prima ed etichettare a vita poi chi non concorda con noi o chi non ci va a genio.

Soprattutto se non si dispone di argomentazioni o di tesi valide per controbattere e per distruggere una persona senza un ben precisato motivo. Si parla spesso del bullismo e del cyber bullismo (la cronaca nostrana ne è piena di notizie sull’argomento, come pure quella estera), questo non lo è per caso. Il bullo umilia la persona che ha preso di mira senza una motivazione: lo fa per divertirsi, o per noia.

E spiace divergere dalla narrazione mainstream che vede nei bulli dei poveri cucciolo smarriti che hanno bisogno di essere compresi, e via dicendo: sono frasi che vengono pronunciate da chi non vuole prendersi la responsabilità del proprio ruolo, nella fattispecie pedagoghi ed educatori, insegnanti e genitori.

La cattiveria è insita nell’uomo per natura. Così come l’ignoranza. E anzi, l’una e l’altra sono collegate: Platone lo afferma bene nella sua Repubblica, solo i filosofi possono governare perché gli unici a conoscere il Bene in generale e anche della città. Chiaro che la Kallipolis platonica deve essere declinata anche in chiave metaforica: noi compiamo il bene solo se lo conosciamo, altrimenti agiamo nel male per ignoranza; la parte razionale o contemplativa - per semplicità, diciamo anche filosofica - deve prevalere sulle altre.

Sperare in una società di filosofi è certamente, allo stato attuale delle cose, pura utopia e quindi dovrebbe rientrare nella normalità la cattiveria presente sui social network e nel mondo reale. Qui, però, casca l’asino: e cioè nel ventunesimo secolo una minima comprensione delle cose e di cultura generale dovrebbe essere la norma; con gli strumenti che tutti noi abbiamo a disposizione, persino e soprattutto concettuali, è quanto meno imbarazzante assistere ad un’incomprensione così ottusa, e ci riferiamo alle accuse di razzismo piovute da tutte le parti verso la protagonista della vicenda, tali da sbarrare ogni via di possibile tentativo di dialogo o mediazione tra le due parti.

Si può però trarre qualcosa di positivo, si fa per dire, dalla vicenda con cui abbiamo aperto: è un interessante termometro della situazione generale del nostro tempo. Ci troviamo in un mondo pervaso dall’isteria e dall’estremismo radicale, la conseguenza è una sola e cioè l’impossibilità di pervenire ad un dialogo perché le posizioni di partenza, rimanendo immutabili, rifiutano la possibilità di un confronto a priori.

Chiaro, un confronto dialettico non implica la necessità che una delle due parti venga persuasa a cambiare idea: non è il fine ultimo del dialogo. Ma l’approfondimento e la conoscenza reciproci sì, è quella la meta a cui dovrebbero arrivare i dialoganti; invece, si scarta per principio il confronto, perché l’altro è di un’ideologia che, a mio avviso, è negativa e pericolosa o, peggio, criminale.

È quasi superfluo suggerire da quale parte provenga soprattutto questa posizione, per così dire, antidemocratica: l’antifascismo del terzo millennio è il primo ad opporsi ad un’analisi critica delle situazioni particolari, e del contesto generale; si urla al razzismo e all’omofobia, così alla chiusura mentale o come abbiamo visto all’appropriazione, indebita, culturale, senza alcuna prova concreta di quello di cui si accusa. Ne abbiamo parlato poco sopra.

Ma fateci spezzare una lancia anche verso gli accusatori della ragazza, pur tenendo presente che la violenza (in questo caso, verbale) non è di certo la soluzione: hanno paura che la cultura e il proprio patrimonio tradizionale venga divorato dalla modernità conformista e dalla spinta multiculturalista che ne segue; la perdita della propria identità attanaglia come un incubo l’individuo e il popolo; e si vede nell’esibizione di un abito da sera che richiama una vicenda storica importante un affronto.

Diciamoci la verità: stiamo vivendo in un tempo in cui non è facile vivere o esprimere un’opinione. Né capire se ciò che ci troviamo davanti sia o meno razzista. Come tentare di conservare il proprio patrimonio culturale, per salvaguardare l’eredità storica ed identitaria personale, famigliare o territoriale. La modernità è multiculturale: non è incontro delle diverse culture o dialogo tra di esse. È una miscellanea di modi di vivere incompatibili tra loro, che si scontrano anche in modo violento; quello di cui abbiamo discusso all’inizio ne è un caso.

Il multiculturalismo diverge dalla conoscenza e dal rispetto reciproco dei popoli; provoca indifferenza, o indisposizione verso lo straniero; è un atteggiamento del tutto naturale e che non può essere biasimato. Una nazione in cui vi è il tanto blasonato melting pot perde la sua identità e la capacità di conoscerne altre: gli Stati Uniti ne sono l’esempio lampante. Si pensa che la globalizzazione ne sia la causa, e in parte è così.

Il progresso tecnologico ha contribuito al movimento di capitali, merci e persone; la facilità con cui oggi possiamo spostarci da Roma a New York non ha eguali con il passato, anche sotto l’aspetto economico. Ma non possiamo imputare la colpa solo alla tecnologia (altrimenti dovremmo rifiutare pure l’uso del telefono cellulare e di internet), ma è da rintracciare nell’idea che oggi è di moda, è cool, per cui tutti gli uomini sono uguali, e fino a qui possiamo pure condividere questa opinione - se ci riferiamo alla dignità e al rispetto dovuto -, e di conseguenza pure le culture; anche se sono dei costrutti che possono essere distrutti perché delimitano l’essere umano.

Ergo, fino a quando l’uomo non si emancipa dalla cultura, le stesse possono convivere - forzosamente - l’una accanto all’altra. Si devono tollerare a vicenda. E solo un uomo libero dalla gabbia della cultura è veramente libero ed emancipato; l’assenza del patrimonio culturale è libertà. Le conseguenze possibili sono due: un miscuglio di tradizioni e di modi di vivere senza capo né coda, grigio e senza senso, e l’annichilimento naturale delle culture; o l’intolleranza tra le diverse comunità che non riuscendo a sopportarsi e a soffrirsi a vicenda vivono in un’eterna tensione, che sfocia pure talvolta in scontri armati. O entrambe.

Non parliamo di volontà politiche o di complotti - questi trovano il tempo che trovano, tra il serio, il faceto e il folklore. Piuttosto della realtà: una persona è tale finché rintraccia in sé stessa e nel gruppo di appartenenza un preciso nucleo identitario, che forgia lo spirito sia individuale sia collettivo; questo per ritornare, in parte, ad Aristotele: l’uomo è un animale politico, che per natura si riunisce in città e stati. Ed è chiaro che le stesse città e stati abbiano affrontato le proprie vicende e storie particolari, e che si sia creato un legame più che stretto tra i membri all’interno delle differenti comunità.

Così si creano i popoli e le culture, ciascuno con le proprie differenze e peculiarità; vi sono, è innegabile, delle contaminazioni dall’esterno. Ciò non pregiudica, d’altro canto, l’esistenza dei diversi patrimoni tradizionali e culturali: anzi, si rafforzano. Però, e ci avviamo alla conclusione, un conto è l’incontro e il dialogo; un altro è l’assembramento coatto, in virtù di una logica, quella no borders, che è - scusateci il gioco di parole - illogica, poiché porta a tutta quella serie di conseguenze che abbiamo elencato poco fa. Bisognerebbe riprendere in mano la propria cultura, e conservarla; non si tratta di fascismo, di razzismo o xenofobia: ma di identità, di tradizione e di storia. Noi siamo quello che siamo perché abbiamo un’eredità sulle spalle, e perché abbiamo vissuto in un ambiente che ci ha materialmente e spiritualmente forgiati.

Certo, possiamo emigrare e immergerci in un ambiente totalmente diverso dal nostro nido. Ma alla fine, un italiano è un italiano e un francese un francese. Parlare di cosmopolitismo è possibile finché lo si intende come capacità di adattamento in un’altra nazione o da un contesto abituale; non siamo cittadini del mondo: siamo figli e cittadini della terra dove siamo nati, della terra dei nostri padri e dei nostri avi. Il multiculturalismo tende a sradicare questo concetto; lo elimina, in favore di cosa? Di un mondo meticcio, dove la differenza decade e nulla più distingue l’uno dall’altro.

Non è la via maestra per la tolleranza, né per il rispetto. Ciò si ottiene solo se vi è coscienza sociale e politica dell’importanza dell’esistenza delle diverse culture e dei diversi popoli, perché sì: siamo tutti uguali, sul piano della dignità umana e del rispetto dovuto. Ma non se guardiamo quello più strettamente antropologico e filosofico.

Arriviamo all’ultima, forse fondamentale domanda che ci rimane da porci: siamo ancora in tempo per invertire la rotta, oppure, com’è già successo e succederà, l’unica vera vittima accertata del razzismo e dell’antirazzismo sarà sempre e solo l’identità?

(Alessandro Soldà Cristofari)

L'ABBANDONO È UN REATO


A volte si cede all’entusiasmo di un momento, oppure si decide di fare un dono speciale per il compleanno o una festività, ed ecco arrivare in casa un animale. Presto, però, ci si rende conto che oltre a dare tantissimo, quel piccolo essere chiede attenzioni, cure, tempo.

Allora può accadere che, con la stessa facilità con cui è stato accolto, il cane o il gatto venga messo alla porta e abbandonato.

Le punte massime di animali abbandonati si registrano nel periodo estivo (25-30%), quando la partenza per le vacanze ne pone il problema della presenza.

Si stima che ogni anno in Italia siano abbandonati una media di 80.000 gatti e 50.000 cani, più dell’80% dei quali rischia di morire in incidenti, di stenti o a causa di maltrattamenti.
L’abbandono è un reato punito con l’arresto fino a un anno o con una multa fino a 10.000 euro. 

sabato 14 luglio 2018

SERVONO FONTANELLE ACQUA PUBBLICA





Le fontanelle dell’acqua pubblica sono un’esigenza crescente che trova il sostegno anche della Commissione Europea. L’obiettivo è duplice: aumentare l’accesso all’acqua per i soggetti svantaggiati e ridurre i rifiuti di plastica.

Milioni di europei, in gran parte espressione di classi meno abbienti non hanno un accesso immediato all’acqua potabile. Le analisi della Commissione Europea rilevano che, anche laddove gli stati membri dispongono di risorse potabili di qualità, manca la possibilità per i cittadini di usufruire pienamente delle fontanelle o dell’acqua del rubinetto, con conseguente aumento delle bottiglie di plastica.

Secondo le nuove regole, gli stati membri dovranno dimostrare che aumenteranno il numero di fontanelle pubbliche, rendendo pubblica la loro posizione e fornendo informazioni sulla qualità dell’acqua.

Come gli altri paesi, anche l’Italia dovrà adeguarsi alle disposizioni, che chiedono prima di tutto un’inversione di tendenza rispetto all’approccio finora adottato.

Ogni Città ha il dovere di assicurare il diritto di accesso all’acqua. I costi pubblici sono irrisori così come irrisorio è lo spreco dell’acqua stessa, specie se paragonato alle condizioni disastrose della rete colabrodo.

I Comuni sono parte del sistema della gestione dell’acqua. Spetta a loro attivarsi per rispondere alle esigenze ed ai diritti dei cittadini. Non perdano altro tempo.

giovedì 12 luglio 2018

CITTÀ METROPOLITANA, 900 MILA EURO CONTRO L’AMIANTO




Mercoledì 11 luglio, nella sala del Consiglio Metropolitano nel Palazzo Regio, è stato presentato il bando per l'erogazione dei contributi ai privati per lo smaltimento dei manufatti contenenti amianto, dislocati nel territorio della Città Metropolitana di Cagliari.

La rimozione e il corretto smaltimento dei manufatti contenenti amianto come coperture, condotte, cisterne, rappresenta una delle priorità per la salvaguardia e cura della salute pubblica, ma tuttavia costituisce un costo significativo. Per questa ragione, nonostante la sua pericolosità, spesso si rinuncia alla rimozione del manufatto oppure al suo corretto smaltimento. Prova ne sia la costante presenza di amianto nelle discariche abusive o nei semplici cumuli di rifiuti presenti nel territorio.

Per i cittadini del territorio della Città Metropolitana è possibile presentare l'istanza per l'erogazione di un contributo per la copertura di parte delle spese di rimozione e smaltimento dei manufatti contenenti amianto. Le risorse rese disponibili dalla Città Metropolitana ammontano a € 900 mila euro di fondi della L.R. 22/2005Norme per l'approvazione del Piano Regionale di protezione, decontaminazione, smaltimento e bonifica dell’ambiente ai fini della difesa dai pericoli derivanti dall’amianto

È necessario garantire la massima informazione ai cittadini su questa opportunità e sulle modalità di acceso al contributo.

Tutte le istanze devono essere presentate on line mediante l'apposito applicativo attivo nel portale della Città Metropolitana dal giorno 12 luglio 2018 sino al 19 ottobre 2018.

Si tratta di un opportunità importante per l'ambiente e la salute dei cittadini. Riteniamo utile che il Comune di Assemini attivi uno “Sportello Assistenza” e, al di là del presente bando, attivi gli uffici per elaborare una mappa in grado di censire le strutture che necessitano di intervento.

mercoledì 11 luglio 2018

PARCHEGGI PER DISABILI E DONNE IN GRAVIDANZA


Si susseguono le campagne di “Mobilità Sostenibile”. Molte le iniziative mediatiche messe in campo, meno quelle dirette a migliorare concretamente e con semplicità la vita dei cittadini. Tra queste, la necessità di realizzare nuovi parcheggi riservati ai disabili e alle donne in gravidanza.

La “Mobilità Sostenibile” non è solo la promozione di un modello innovativo di un sistema di trasporti diretto a ridurre al minimo l’impatto con l’ambiente, massimizzando efficienza, innovazione e rapidità degli spostamenti. Esso è anche e soprattutto possibilità di spostarsi concretamente in libertà e sicurezza, creando nuove forme relazionali senza mai perdere di vista l’aspetto umano.

Quindi, non basta sensibilizzare il cittadino all’impiego di mezzi di trasporto diversi, ma occorre maturare il bisogno politico e amministrativo di concentrare le attenzioni pratiche verso l'abbattimento delle barriere e verso nuove infrastrutture in grado di migliorare la qualità della vita urbana.

Tra le tante esigenze, riteniamo che Assemini necessiti di studiare e attuare in breve tempo un progetto che consenta di realizzare nuovi e adeguati punti di sosta per disabili e donne in gravidanza, per poter usufruire agevolmente dei servizi pubblici e privati offerti dalla città.

Riteniamo che tale proposta debba trovare in Consiglio comunale la sede istituzionale più opportuna per sostenere con convinzione una linea di condotta attinente al ruolo e ai compiti dell’amministrazione comunale.   

giovedì 5 luglio 2018

NIGERIANA VITTIMA DI RAZZISMO, MA E' TUTTO FALSO


Giornalisti, intellettuali radical chic, centri sociali, antirazzisti ed “antifascisti” in servizio permanente effettivo si erano già gettati a testa bassa sulla notizia, alimentando la campagna mistificatoria che farnetica di un’Italia xenofoba e intollerante.

Il caso appariva ghiotto: il 2 luglio scorso una ragazza nigeriana, davanti ad un ufficio postale di Sassari, sarebbe stata insultata e apostrofata malamente e con frasi “razziste” da un giovane del posto, che le avrebbe strappato di mano e spezzato il postamat, portato via il cellulare, per poi tirarla per i capelli e malmenarla. A quel punto sarebbero intervenuti gli agenti della Polizia e la nigeriana sarebbe stata persino portata al pronto soccorso.

Immediata la reazione delle associazioni antirazziste che tramite i loro legali hanno assistito la nigeriana nella presentazione della denuncia, del Sindaco di Sassari che, come da copione, ha condannato “con fermezza” il gesto esortando “la città tutta a reagire”, nonché vari “intellettuali” e “politici”.

Non è mancato il consueto sit-in di protesta delle associazioni, tenutosi il 3 luglio davanti all’ufficio postale di via Bogino a Sassari. Le testate giornalistiche hanno rilanciato la notizia senza minimamente preoccuparsi di verificarne la veridicità e soprattutto di attendere l’esito degli accertamenti delle forze dell’ordine, con particolare riferimento a filmati delle telecamere dell’ufficio postale.

Ieri la smentita della Questura: nessuna aggressione razzista, al contrario è stata la nigeriana ad aggredire il giovane sassarese. Dalle telecamere della banca si vede che i due discutono davanti al bancomat, in quanto, come è stato accertato, la nigeriana pretendeva di non rispettare la fila e passare prepotentemente avanti a tutti. Di fronte alle rimostranze del sassarese, dal video emerge che la donna ha aggredito il suo interlocutore con calci e morsi, costringendo il connazionale a difendersi.

Come volevasi dimostrare. L’ampio fronte “politicamente corretto”, “antifascista”, “antirazzista” e chi più né ha più né metta, raccoglie in terra di Sardegna e a Sassari l’ennesima figuraccia, a testimonianza della profonda distanza che ormai separa questi personaggi dal comune sentire del nostro Popolo.

Carlo Altoviti 

DIFFICOLTA' A TROVARE LAVORATORI? PAGATELI!





Per l’Economist i salari troppo bassi. Il settimanale economico prende spunto da una riunione dei rappresentanti delle banche centrali, tenutosi recentemente a Sintra, in Portogallo, per rendere pubblica la “preoccupazione” che i salari dei lavoratori in Europa siano diventati troppo bassi.

Secondo l’Economist, nella maggior parte dei Paesi ad alto reddito il salario reale (al netto degli aumenti dei prezzi) è cresciuto in media dell’1% all’anno, dal 2000 a oggi – e nella fascia dei salari più bassi l’incremento è stato ancor più contenuto. L’attuale economia globale, si interroga il settimanale, potrebbe aver “indebolito oltre misura il potere contrattuale dei lavoratori al punto che nemmeno tassi di disoccupazione particolarmente bassi riescono a infiammare le loro pretese salariali”.

Parte del problema, nota l’Economist, è che l’inflazione, la crescita dei prezzi, tende a “mangiare” la maggior parte degli aumenti del salario, e nei paesi dell’Unione Europea ancora di più che negli Stati Uniti.
  
“Nemmeno una ripresa della produttività garantirebbe tempi favorevoli per i lavoratori. Negli ultimi decenni la quota del Pil destinata al lavoro, piuttosto che al capitale, è diminuita perché la paga reale è aumentata più lentamente della produttività. Nelle economie avanzate la quota salari è scesa da quasi il 55% a circa il 51% tra il 1970 e il e 2015, secondo i ricercatori del Fondo monetario internazionale. (…) Invertire la caduta della quota del lavoro nel reddito nazionale richiederebbe che i salari reali crescessero più rapidamente della produttività, andando a erodere i margini di profitto delle imprese”, sottolinea l’Economist.

Ma nell’articolo c’è uno spazio dedicato anche alla situazione italiana. “Alcuni paesi, come l’Italia, continuano a soffrire di tassi di disoccupazione molto più alti di quanto non fossero prima della crisi finanziaria. Eppure sui salari si potrebbe concedere qualcosa visto che ora i beni vengono prodotti nelle filiere internazionali e venduti sui mercati globali”.

Ma è proprio questo accanirsi nel deprimere il mercato interno (di cui i salari come i consumi sono il motore, ndr) che comincia a suscitare interrogativi nell’establishment. L’Economist cita un recente documento di lavoro di Kristin Forbes, del Massachusetts Institute of Technology, arrivata alla conclusione che l’influenza sull’inflazione dei prezzi alimentari e delle materie prime globali è cresciuta nell’ultimo decennio, mentre le condizioni economiche locali sono diventate meno importanti.

Simpatica ma emblematica la battuta  di Philip Lowe, il governatore della banca centrale australiana, riportata da l’Economist,  il quale ha detto al pubblico dei suoi colleghi riuniti a Sintra che, quando chiede alle imprese che hanno difficoltà a trovare lavoratori: “Perché non li pagate di più? Queste mi guardano come se fossi completamente matto”.

Volete una piccola verifica empirica? A giugno, secondo i dati del ministero dei Trasporti, le immatricolazioni sono state pari a 174.702 unità, con un calo del 7,3% rispetto allo stesso periodo del 2017. Si tratta del quarto mese negativo da inizio anno. Pe la Fiat, in particolare, il calo è da incubo: lo scorso mese sono stati 43.642 i veicoli registrati, il 19,16% in meno rispetto allo stesso periodo del 2017. Vanno bene soltanto le Jeep, che costano di più e sono quindi acquistate dai ceti medio-alti. Crollano le vendite sui modelli per “poveracci”, che sono diventati evidentemente così poveracci da non potersi più permettere di cambiare l’auto.

Stefano Porcari

IMMIGRAZIONE E SFRUTTAMENTO




Che gli immigrati, intra ed extra UE presentino i medesimi tassi di occupazione degli italiani ma che guadagnino meno a parità di mansione e titolo di studio lo rende noto anche il secondo rapporto annuale “Immigrant Integration in Europe and Italy” dell’Osservatorio sulle Migrazioni Centro Studi Luca d’Agliano di Milano e del Collegio Carlo Alberto di Torino, che utilizza i dati dell’ultima edizione della European Labour Force Survey (2016). Fra la popolazione compresa tra i 25 e i 64 i tassi di occupazione in Italia sono grosso modo gli stessi: nel 2017 è occupato il 65% dei nativi e il 64% degli immigrati. Una situazione tutto sommato positiva rispetto alla media dell’Unione Europea, dove gli immigrati hanno un tasso di occupazione di 7,2 punti percentuali inferiore a quella dei nativi.

Il divario occupazionale rispetto ai nativi è specialmente ampio nei paesi del nord e del centro Europa, come Olanda e Svezia (-17 punti percentuali), Germania (-16 p.p) o Francia (-15 p.p.), mentre tende a essere inferiore nei paesi del sud d’Europa come l’Italia (-0.7 p.p.).

Vanno precisati tuttavia due aspetti: primo, che l’Italia ha uno dei tassi di occupazione dei nativi più bassi all’interno dei paesi UE, per cui gli immigrati non hanno una probabilità di occupazione elevata in termini assoluti, ma solo rispetto ai nativi. Secondo, che tra il 2009 e il 2017, la probabilità di occupazione dei nativi è cresciuta di 1.5 punti percentuali, mente è diminuita di circa quattro punti percentuali per gli immigrati.

Complessivamente in Italia fra il 2009 e il 2017, il numero di immigrati residenti è passato da 4,5 a 5,9 milioni, cioè un aumento del 30.9% e la grande maggioranza degli immigrati è residente in Italia più di cinque anni. Oggi i nati all’estero rappresentano quasi il 10% della popolazione italiana, contro il 13,3% di Italia e Regno Unito e l’11,3% della Francia. Più della metà di loro proviene da un altro paese Europeo (EU e non) e il 21% da paesi europei fuori dall’UE.

Ovviamente, non si può parlare genericamente di “immigrati”, ma è necessario distinguere le diverse situazioni. Il rapporto separa per esempio gli immigrati provenienti dall’Unione Europea, da quelli provenienti dai paesi europei non UE (per esempio l’Albania, la Serbia, la Bielorussia e l’Ucraina) e da quelli fuori Europa. Ebbene, a ben vedere sono gli immigrati dei paesi UE-15 a mostrare il tasso di occupazione più basso, mentre gli immigrati dei paesi dell’est Europa (UE) hanno quello più alto.

Ma soprattutto, sono le donne ad abbassare la statistica dell’occupazione degli stranieri in Italia. Gli uomini immigrati hanno una probabilità di occupazione di 3 punti percentuali superiore a quella dei nativi, principalmente grazie alla loro residenza in regioni italiane con mercati del lavoro più forti. Al contrario, le donne immigrate hanno una probabilità di impiego di 2,4 punti percentuali inferiore a quella delle donne native.

Le differenze fra nativi e non riguardano i salari: in media nel 2017, i redditi netti mensili degli immigrati sono inferiori del 26% rispetto a quelli dei nativi e più della metà del divario salariale degli immigrati è dovuto a differenze nella distribuzione occupazionale e nella frequenza del lavoro part-time tra immigrati e nativi. Nel 2017 salario medio netto dei nativi è di 1392,4 euro, quello degli stranieri provenienti dai paesi UE anche maggiore -1423,7 euro – quello degli immigrati provenienti dai nuovi paesi UE 1015,8 euro, e 1060,9 euro quello dei migranti extra- UE.

Ma soprattutto, questa forbice salariale diminuisce col passare degli anni di residenza, ma è andata complessivamente ampliandosi nel tempo. Nel 2017, in media gli immigrati guadagnano circa il 19% in meno di nativi con le loro stesse caratteristiche e a parità di occupazione, mentre nel 2009, il divario era del 6%. Si passa da un iniziale 40% di gap salariale fra nativi e immigrati a circa 20% dopo 20 anni dall’arrivo nel paese, ma a più velocità: gli immigrati dell’Europa occidentale hanno in media gli stessi salari dei nativi. Gli immigrati dei paesi UE dell’est hanno il divario salariale maggiore rispetto ai nativi (-33%), seguito da quello degli immigrati extra-comunitari (-28%).

Infine, non si può non nominare il gender-gap: il divario salariale totale fra nativi e immigrati è maggiore per le donne immigrate (31% di differenza con le native) che per gli uomini (22% di differenza).

Cristina Da Rold

mercoledì 4 luglio 2018

NESSUNA GUERRA AL GIOCO, SOLO QUALUNQUISMO







Mancano gli studi. Mancano i dati. Manca un quadro nazionale con le tendenze del fenomeno. Paolo Crepet, uno dei più noti psichiatri italiani, è tranchant: «Dichiarare guerra alla ludopatia è un ottimo spot per il governo a caccia di consensi, ma il problema è che non sappiamo contro chi combattiamo».


Il gioco sembra essere una piaga del Belpaese.

«Ha detto bene: sembra. Non ci sono studi scientifici complessivi, ma solo qualche ricerca qua e là. Con tutto il rispetto, io non posso prendere per oro colato l'allarme lanciato dal parroco di qualche paesino dove magari due persone si sono rovinate con le slot».

E che cosa servirebbe invece per comprendere il problema?

«Io vorrei sapere se il gioco è più diffuso al Nord o al Sud, fra gli uomini o fra le donne, fra i ricchi o i poveri, fra i giovani o gli anziani. Invece, procediamo a spanne e qualche volta rischiamo di ingigantire il tema».

Sappiamo che molte persone sono dominate da questa pulsione irrefrenabile per le macchinette, per l'azzardo, per le scommesse.

«Si, ma sono percezioni. Che, come tali, valgono poco o nulla. Io, per essere chiaro, penso che se avessimo davanti la curva del fenomeno faremmo scoperte interessanti. Credo che negli ultimi dieci anni la dipendenza dal gioco non sia aumentata, non si sia diffusa come un'epidemia nel nostro Paese. Forse non è nemmeno diminuita, ma secondo me non è cresciuta».

Ma gli allarmi che rimbalzano di continuo?

«C'è una tendenza a enfatizzare, a demonizzare, a trattare come ludopatiche persone che non lo sono. La signora non più giovanissima che va al casinò in Croazia due volte al mese e si gioca un quarto della pensione può essere considerata una malata? No, perché quella signora esce di casa, stabilisce delle relazioni, si mette il vestito bianco che non sapeva neanche più di avere e in compagnia torna a sorridere. I benefici superano le difficoltà».

Crepet, non sarà un negazionista?

«No, semmai non sono uno stupido e so distinguere: un conto è perdere un quarto della pensione, altra cosa è dilapidare in una notte il patrimonio di una famiglia o sfasciare un'azienda. Sono situazioni diverse che vanno trattate in modo diverso. Non ha alcun senso criminalizzare tutto e tutti».

La crisi economica non ha favorito questa piaga?

«Altro luogo comune: semmai è vero che prima il tonfo veniva attutito dal contesto sociale e economico, più solido, oggi gli ammortizzatori non ci sono più e si va a fondo prima e più rapidamente, ma la dinamica non cambia. Piuttosto c'è un altro aspetto, decisivo, che rischia di rimanere in ombra».

A cosa si riferisce?

«Il malato di gioco spesso è una persona che ha altre dipendenze. La pulsione è solo un aspetto di una personalità distorta che, magari, è schiava dell'alcol, è soggiogata dalle droghe, ha una situazione familiare disastrosa».

Come si curano questi soggetti?

«È un problema nel problema. Certo, non basta qualche seduta di psicoterapia. O qualche visita, peraltro in carico agli specialisti che affrontano le tossicodipendenze, perché un servizio ad hoc, che io sappia, non esiste. Si deve intervenire sulle cause che sono precedenti o, se si preferisce, più profonde».

Il Governo?

«Il Governo non può cavarsela con un decreto. Certo, la pubblicità va regolata. Ma la questione dell'azzardo andrebbe fronteggiata con altra serietà. Esplorando un mondo sconosciuto, ancora di più dopo l'avvento delle tecnologie digitali che hanno stravolto costumi e abitudini. Si, ci vorrebbe più serietà e meno isteria».

Stefano Zurlo

martedì 3 luglio 2018

LE PERPLESSITÀ DEL “DECRETO DIGNITÀ”



Il Consiglio dei ministri ha approvato ieri in tarda serata quello che il vice premier e ministro Luigi Di Maio ha ribattezzato con enfasi “decreto dignità”, una sorta di mini-omnibus che tocca il mercato del lavoro, il fisco (in parte minima, quasi inavvertibile), le delocalizzazioni e la pubblicità su giochi. Sul lavoro, la prima impressione è che si sia lavorato alacremente per rafforzare la precarietà e la natura persistentemente duale del mercato italiano del lavoro.

Sul lavoro, serve una premessa: il motivo del successo del tempo determinato è, assai banalmente, riconducibile in ampia misura al suo vantaggio in termini di costo rispetto al tempo indeterminato, o a “tutele crescenti”. E questo pur considerando la maggiorazione contributiva del primo sul secondo. Serviva, quindi, riequilibrare la convenienza relativa tra i due contratti a favore del tempo indeterminato.

Il ministro del Lavoro decide di aumentare l’onerosità di entrambi i contratti. Quale tra i due risulterà il più penalizzato? Temo proprio l’indeterminato. Vediamo perché. I costi di risoluzione di un tempo indeterminato, relativi alla monetizzazione di un licenziamento illegittimo, che aumentano del 50%, minimo 6 mesi e massimo 36 mesi di retribuzione.

Questo è un forte aumento dell’onerosità di questo istituto contrattuale. Se a ciò si somma che il tempo determinato potrà restare acausale su contratti sino a 12 mesi, e che già oggi la netta maggioranza dei contratti di questo tipo si concentrano su durate inferiori ai dodici mesi, si può immaginare che una potenziale reazione delle imprese sarà quella di frenare il tempo indeterminato e spostare comunque le assunzioni sul tempo determinato, accentuando il turnover ed il dualismo del mercato del lavoro mentre si proclama di volerlo combattere senza respiro. Oltre a produrre un disincentivo all’insediamento di imprese estere in Italia.

Se le aziende usano (ed abusano) del tempo determinato, è perché cercano di ridurre un costo del lavoro che è sempre troppo elevato e che zavorra il Paese, mentre attendiamo che le nostre attività si spostino verso maggiore valore aggiunto. La soluzione, per chi opera in attività a basso valore aggiunto, è quella di spostarsi verso il nero al crescere dell’onerosità dei rapporti regolari.

Possiamo stigmatizzare quanto vogliamo queste situazioni, anche arrivando a dire che aziende che non possono permettersi di pagare più di pochi euro l’ora non sono degne di esistere. Però finché la struttura aziendale italiana presenta questo tipo di stratificazioni, non c’è alternativa a tenere molto basso il costo del lavoro, oppure accettare che tutto scivoli nuovamente nel sommerso.

Serve ridurre in modo strutturale e permanente il cuneo fiscale, che il governo Renzi non è riuscito a fare se non in minima parte (togliendo il costo del lavoro a tempo indeterminato dall’Irap), e sprecando dieci miliardi annui di bonus 80 euro.

Di Maio ha precisato che con la legge di bilancio arriverà la riduzione del costo del lavoro, che tuttavia sarà “selettivo, su tutte le imprese che hanno margini di crescita”. Ridurre il costo del lavoro a imprese che già generano livelli decenti di valore aggiunto va benissimo, ma non ridurlo a quelle marginali non fa che spingerle verso il nero, non certo verso un’improbabile digitalizzazione.

C’è poi da segnalare l’azione palesemente ostile contro le agenzie per l’impiego, con l’applicazione della normativa del tempo determinato anche al lavoratore da somministrare. Questo vincolo equivale a metterle fuori mercato, a tutto vantaggio dell’assai futuribile rilancio dei centri pubblici per l’impiego. Ideologicamente, questo è nettare per tutti quelli che vogliono “combattere il caporalato delle agenzie interinali”, ed è probabile che Di Maio cercasse esattamente questa gratificazione simbolica immediata. L’effetto finale sarà tuttavia la perdita di occupazione diretta ed indiretta ed un’accentuazione della precarizzazione e del rischio-immersione.
  
Da ultimo, interessante notare che il maggiore utilizzatore di lavoro a termine in Italia, la pubblica amministrazione, resta fuori dalle nuove norme.

Mario Seminerio

Insomma, più che un “Decreto Dignità”, come sostiene Carlo Stagnaro, sembrerebbe un “Decreto Rigidità”. Perché aumenta le indennità di licenziamento per i contratti a tempo indeterminato ed opera un giro di vite a quelli a tempo determinato. Il risultato non potrà che essere opposto a quello che Di Maio intende raggiungere. Chi poteva essere assunto a tempo indeterminato rischia di doversi accontentare di un contratto a termine e una parte di quelli a termine rischia di sprofondare nel nero.

Nemmeno gli altri due aspetti del Decreto entrano nel merito delle questioni strutturali. Le misure anti delocalizzazioni sembrano misure anti localizzazioni: l’incentivo alle imprese è subordinato a troppe condizioni e vincoli che rischiano di scoraggiare la richiesta stessa di incentivi, penalizzando il Sud. Aspetto che ha senso se l’obiettivo è quello di cancellare formule di finanziamento allegro, ma che non prevede alcuna forma di agevolazione per l’impianto di nuove imprese e/o il consolidamento di quelle esistenti.

Non meno rilevante è il terzo aspetto, quello relativo al gioco d’azzardo. Il Decreto ne vieta la pubblicità solo per i privati e non per il gestore pubblico. Il rischio rimane quello di tutelare esclusivamente il gioco di Stato e, indirettamente, quello illegale. Un esplicito rigetto politico alle libertà individuali in cui esiste solo lo Stato e l’economia criminale. In mezzo nulla.