Apologia della mobilità illimitata, accettazione passiva del
precariato, rinuncia ad ogni forma di identità: 'Generazione Erasmus', edito da
Oaks Editrice, è un utile compendio per districarsi nelle brutture del libero
mercato e dei suoi avidi fiancheggiatori.
Il volume a firma di Paolo Borgognone, pubblicato lo scorso
anno per i tipi di OAKS, dal titolo Generazione Erasmus, è un vero compendio filosofico
attinente la società di “libero mercato” e i suoi avidi fiancheggiatori.
Ponendo al centro della trattazione l’esperienza dei giovani universitari che
si recano all’estero per un periodo di studio, delinea con ricchezza di
particolari quei processi che hanno condotto inesorabilmente alla costruzione
della moderna società “liquida”: il totalitarismo nichilista del consumo; il
giovanilismo come apologia della mobilità illimitata e accettazione passiva del
precariato; il nuovo conflitto di classe post-moderno fra vincitori e vinti
della globalizzazione; il genderismo come rinuncia alla propria identità anche
nella sfera sessuale; il Sessantotto come controrivoluzione ultra-capitalista.
Nella seconda parte, non mancano acute analisi geopolitiche.
Stando ai contenuti strettamente filosofici, osserviamo che
il risorgere dell’interesse per il pensiero di Hegel e Marx nell’ultimo
decennio ha un’importanza rilevante in relazione ai problemi sorti con
l’evoluzione del capitalismo dopo il 1989 e dell’economia post-moderna; in
effetti, siamo di fronte ad un’opera pregevole, concepita da un giovane
studioso, che si inserisce in un più ampio circuito di ripensamento del ruolo
della politica e dello Stato nei confronti dell’economia, della comunità di
fronte all’individualismo, delle radici tradizionali contro il mondialismo
dell’omologazione planetaria.
Invero, quando la società nel suo complesso tende a divenir
preda di scopi “particolari”, frammentandosi in una pletora di confuse mire
egoistiche, la missione delle istituzioni statali deve concretizzarsi
nell’orientare la collettività verso un destino universale. Una comunità
politica è propriamente tale quando è in grado di opporsi agli eccessi della
“società civile”; in altre parole, sebbene permetta l’esistenza del “mercato”,
lo Stato – nella sua configurazione moderna e “nazionale” – deve costituire un
argine alla capacità degli interessi capitalistici di dominare e permeare la
vita ordinaria nel suo complesso. Le moderne società a economia di mercato sono
caratterizzate proprio da questa patologia: l’attività economica –
signoreggiata dai grandi industriali e dalla speculazione finanziaria tramutata
in “dittatura dei mercati” – diventa la logica dominante delle relazioni
sociali, influenza ogni campo della dimensione pubblica, senza alcun freno;
predispone quindi la collettività, con tutti i suoi mezzi, a realizzare gli
interessi materiali ed etici di un ristretto segmento di essa.
In un tale quadro, il progetto Erasmus, artefice
dell’omonima “generazione”, è lo strumento per addomesticare e catechizzare le
moderne plebi, illudendole di poter vivere in una movida permanente,
annunciando loro che il mondialismo – piuttosto che servitù morale ed economica
– è divertimento sfrenato e consumismo illimitato. Sia chiaro: non si tratta di
essere contrari all’idea di un’economia di mercato o della possibilità che
giovani studenti dalle brillanti capacità possano perfezionarsi attraverso
un’esperienza in un altro Paese europeo; piuttosto, occorre criticare fermamente
la tendenza della sfera economica a colonizzare ogni ambito delle relazioni
sociali, a degradare ogni più alto e nobile scopo. La libertà civica si
deteriora in un ambiente saturo di atomismo competitivo; la società civile e il
sistema dei bisogni richiedono l’esistenza dello Stato al fine di prevenire
questo tipo di malattia sociale, che gli individui siano guidati dalla ricerca
del proprio tornaconto a spese degli interessi più ampi della società nel suo
insieme. Il capitalismo moderno – inoltre – si caratterizza non solo dalla
logica onnipervasiva dello scambio e dal perseguimento di utilità particolari a
spese della generalità, ma dalla circostanza che un piccolo gruppo di interessi
privati siano in grado di organizzarsi per sottomettere e indirizzare, nel
proprio interesse, il potere politico, la cultura accademica, i mezzi di
comunicazione di massa – a discapito degli interessi universali della società.
A favorire questi sviluppi, scorgiamo il sostegno del ceto
intellettuale, dentro e fuori le università; quei giornalisti e professori “di
sinistra” che hanno il compito di fornire giustificazione nobile, colta e
morale allo scempio in atto. Non è semplice conferire una parvenza di
scientificità e rispettabilità alle idee dominanti, che si traducono in prassi
di pauperizzazione e sradicamento della classe lavoratrice. Da qui,
l’irrimediabile allontanamento dal favore dei popoli, i quali sono
continuamente dileggiati per i loro stili di vita, per i modi di pensare e per
le loro frequenti manifestazioni di dissenso verso il modello globalista di
delocalizzazione e precarizzazione della forza-lavoro. A compensare la perdita
dei diritti sociali, inoltre, si assiste allo sbandieramento di finte
“conquiste” nel campo dei diritti civili, dell’emancipazione sessuale, della
licenziosità spacciata come progressismo libertario.
Organizzatosi dapprima come nuovo schema di produzione e
distribuzione delle merci, di ristrutturazione del lavoro e ripartizione della
proprietà, il capitalismo diventa sempre più un’istituzione sociale, un
elemento naturale come l’aria che respiriamo; si impone come regolatore di
relazioni, ha la capacità di ri-orientare le logiche funzionali di tutti gli
organismi (economici e non). Se i rapporti di mercato incontrollati sfociano
nella frammentazione della società, il capitale è in grado superficialmente di
superare questa scissione, ostentando un falso universale: la ricerca del
profitto, la moda del consumo, la frenesia dell’apparire – sono tutte logiche
che giungono a permeare ogni recesso della società moderna. Il compito dello
Stato nazionale, lo ribadiamo, consiste dunque nell’incorporare le forme
subordinate di vita sociale – la famiglia, la società civile, i “corpi
intermedi” – in una totalità più elevata, in cui gli agenti razionali saranno
in grado di identificare consapevolmente l’universale e conseguire così la
piena libertà. Se esso invece si confonde o deriva in ultimo dalla “società
civile”, e se il suo fine specifico coincide con la garanzia della sicurezza
personale e della protezione della proprietà privata, allora gli interessi
individuali, in quanto tali, diventano il fine supremo dell’associazione umana;
ne consegue che l’appartenenza alla comunità politica è qualcosa di opzionale e
revocabile.
Nei regni della famiglia e della società civile, gli
individui non sono in grado di riconoscere e cogliere integralmente la natura
oggettiva della loro libertà come esseri sociali, al di là dei ruoli “parziali”
che ricoprono nei rapporti della vita ordinaria – come genitori, figli,
lavoratori, consumatori e così via. In questo senso, il particolare si oppone
all’universale in quanto non è in grado di vedere se stesso come un momento del
tutto; pertanto, quelle strutture sociali, istituzioni politiche, usi e costumi
che non sono capaci di orientare le attività degli uomini verso obiettivi
universali (e comuni) non possono soddisfare il criterio della loro razionalità
naturale. Veniamo a comprendere, in fin dei conti, che siamo esseri sociali e
politici, che siamo parte di un tutto coerente, che il nostro territorio
individuale – le nostre personalità, le nostre pulsioni, il nostro senso del
dovere – ottiene esauriente compimento, in questo mondo, una volta attualizzate
le nostre relazioni con gli altri, anche grazie alle istituzioni politiche che
hanno il compito di mediare le varie connessioni. Credere – seguendo la
struttura neoliberale – che gli individui non sono altro che atomi che
realizzano se stessi nell’anarchia degli interessi privati è, di per sé, la più
pericolosa delle astrazioni.
di Gabriele Sabetta - 29 giugno 2018