Cresce il numero delle aziende che si mettono al riparo dal
fisco vorace italiano. Altre, si chiedono ogni giorno se è arrivato il momento
di fare le valigie.
Un fatto naturale, indotto da uno Stato sempre più
centralista, guidato da una classe dirigente ampiamente qualunquista e
autoreferenziale.
Gabriele Fava, giuslavorista e legal advisor, di capitani
d'azienda al «bivio della delocalizzazione» ne ha conosciuti molti: «sia chiaro, nessuno decide di
lasciare il nostro Paese a cuor leggero. Spesso è una scelta dolorosa, ma
inevitabile. L'alternativa è chiudere e ritrovarsi col piattino in mano.
D'altronde cosa si può argomentare di fronte a chi reclama più redditività e
meno oppressione fiscale?», esordisce l’Avvocato.
Intervistato da Giacomo Susca, Avvocato Fava, precisa che «quelle
di cui si parla sono realtà medio-grandi, dai 100-200 dipendenti fino ai
10mila. Imprese in salute del settore metalmeccanico, dell'energia o dei
servizi, che possono permettersi di spostarsi all'estero senza maggiori
rischi».
Del resto, come sostiene Nicola Porro, gli imprenditori non
sono i responsabili di una Onlus. Hanno lo scopo di realizzare profitti e
operano laddove le condizioni consentono di essere competitivi e di crescere. Assumono
solo se le prospettive sono positive. «Ci sono
Paesi che accompagnano nel business passo per passo - aggiunge Fava - e fanno
di tutto per averti. L'Italia ormai non è certo tra questi».
Allora conviene scappare. «Mica tanto lontano - precisa Fava
- altrimenti la logistica sarebbe un
problema. I nuovi paradisi delle imprese si trovano a un'ora, un'ora e mezza al
massimo di aereo da Roma: Olanda, Paesi scandinavi, Polonia, Portogallo. E
nell'ultimo periodo il vero boom è verso la Tunisia, l'Albania, la Serbia,
posti in cui la manodopera parla anche italiano».
Trattasi di Paesi a «fiscalità
eccezionale», basso costo del lavoro (in
Italia la gabbia è insopportabile), burocrazia inesistente, finanziamenti
statali, dialogo trasparente con le istituzioni.
«Per capirci - sostiene Fava - in Tunisia il governo ha
previsto per chi avvia un'attività 10 anni di esenzione fiscale totale, più 10
anni di esenzione dagli oneri previdenziali. Il costo del lavoro è pari a 2,5
euro all'ora per 40 ore settimanali. Il costo dell'energia è inferiore del 70%
rispetto all'Italia. A Tirana, l'affitto di un locale commerciale di 1.500 mq
costa non più di 1.500 euro al mese. E ancora in Albania, ci vogliono 48 ore
per costituire una S.r.l. con capitale sociale minimo di 5mila euro. Altro che
la giungla delle scartoffie a cui siamo abituati dalle nostre parti».
Eppure la politica non manca di promettere impegno per
salvaguardare l'italianità delle produzioni. Ma per Fava: «sono sempre di più
quelli che partono. E non si tratta solo delle delocalizzazioni, bisognerebbe
aprire un capitolo a parte sulle start-up dei talenti italiani che emigrano
all'estero. Negli ultimi due anni il fenomeno è addirittura aumentato. «Questa
crisi dura da 8 anni. Anzi, non è più una crisi: la situazione sembra
patologica».
Eppure invertire il tracollo è possibile. «Gli imprenditori -
dichiara Fava - chiedevano riforme organiche nel nostro Paese, ma non sono
state fatte. Il governo si è limitato a una caterva di pannicelli caldi per
tamponare qua e là. Lo stesso Jobs Act ha funzionato fin tanto che ci sono
stati gli indennizzi, poi man mano che sono andati a ridursi anche i risultati
si sono sgonfiati. Il mercato del lavoro non si crea con iniezioni di danari
estemporanee, servono interventi strutturali».
Per fermare l'emorragia, oltre all’auspicata lotta alla
corruzione, ci vuole altro. Secondo Fava: «agli imprenditori, più che il numero
dei futuri senatori di Palazzo Madama, interessano le misure che hanno un
impatto concreto sui bilanci. Per convincerli a restare ci vorrebbe un mercato
del lavoro dinamico, flessibile, fiscalmente equo, a burocrazia ridotta, in cui
si dia più valore alla contrattazione aziendale. E dove il pubblico sia al
fianco dei privati per creare ricchezza, non per tormentarli con vincoli ottusi
e stangarli con tasse insostenibili».
Naturalmente, i politicanti continuano ad aumentare i loro sconci
privilegi. Hanno spese … e poi, non sono mica «l’ultima
categoria di metalmeccanici!»
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