Il Consiglio dei ministri ha approvato ieri in
tarda serata quello che il vice premier e ministro Luigi Di Maio ha
ribattezzato con enfasi “decreto dignità”, una sorta di mini-omnibus che tocca
il mercato del lavoro, il fisco (in parte minima, quasi inavvertibile), le
delocalizzazioni e la pubblicità su giochi. Sul lavoro, la prima impressione è
che si sia lavorato alacremente per rafforzare la precarietà e la natura
persistentemente duale del mercato italiano del lavoro.
Sul lavoro, serve una premessa: il motivo del
successo del tempo determinato è, assai banalmente, riconducibile in ampia
misura al suo vantaggio in termini di costo rispetto al tempo indeterminato, o
a “tutele crescenti”. E questo pur considerando la maggiorazione contributiva
del primo sul secondo. Serviva, quindi, riequilibrare la convenienza relativa
tra i due contratti a favore del tempo indeterminato.
Il ministro del Lavoro decide di aumentare
l’onerosità di entrambi i contratti. Quale tra i due risulterà il più
penalizzato? Temo proprio l’indeterminato. Vediamo perché. I costi di
risoluzione di un tempo indeterminato, relativi alla monetizzazione di un
licenziamento illegittimo, che aumentano del 50%, minimo 6 mesi e massimo 36
mesi di retribuzione.
Questo è un forte aumento dell’onerosità di questo
istituto contrattuale. Se a ciò si somma che il tempo determinato potrà restare
acausale su contratti sino a 12 mesi, e che già oggi la netta maggioranza dei
contratti di questo tipo si concentrano su durate inferiori ai dodici mesi, si
può immaginare che una potenziale reazione delle imprese sarà quella di frenare
il tempo indeterminato e spostare comunque le assunzioni sul tempo determinato,
accentuando il turnover ed il dualismo del mercato del lavoro mentre si
proclama di volerlo combattere senza respiro. Oltre a produrre un disincentivo
all’insediamento di imprese estere in Italia.
Se le aziende usano (ed abusano) del tempo
determinato, è perché cercano di ridurre un costo del lavoro che è sempre
troppo elevato e che zavorra il Paese, mentre attendiamo che le nostre attività
si spostino verso maggiore valore aggiunto. La soluzione, per chi opera in
attività a basso valore aggiunto, è quella di spostarsi verso il nero al
crescere dell’onerosità dei rapporti regolari.
Possiamo stigmatizzare quanto vogliamo queste
situazioni, anche arrivando a dire che aziende che non possono permettersi di
pagare più di pochi euro l’ora non sono degne di esistere. Però finché la
struttura aziendale italiana presenta questo tipo di stratificazioni, non c’è
alternativa a tenere molto basso il costo del lavoro, oppure accettare che
tutto scivoli nuovamente nel sommerso.
Serve ridurre in modo strutturale e permanente il
cuneo fiscale, che il governo Renzi non è riuscito a fare se non in minima
parte (togliendo il costo del lavoro a tempo indeterminato dall’Irap), e
sprecando dieci miliardi annui di bonus 80 euro.
Di Maio ha precisato che con la legge di bilancio
arriverà la riduzione del costo del lavoro, che tuttavia sarà “selettivo, su
tutte le imprese che hanno margini di crescita”. Ridurre il costo del lavoro a
imprese che già generano livelli decenti di valore aggiunto va benissimo, ma
non ridurlo a quelle marginali non fa che spingerle verso il nero, non certo
verso un’improbabile digitalizzazione.
C’è poi da segnalare l’azione palesemente ostile
contro le agenzie per l’impiego, con l’applicazione della normativa del tempo
determinato anche al lavoratore da somministrare. Questo vincolo equivale a
metterle fuori mercato, a tutto vantaggio dell’assai futuribile rilancio dei
centri pubblici per l’impiego. Ideologicamente, questo è nettare per tutti
quelli che vogliono “combattere il caporalato delle agenzie interinali”, ed è
probabile che Di Maio cercasse esattamente questa gratificazione simbolica
immediata. L’effetto finale sarà tuttavia la perdita di occupazione diretta ed
indiretta ed un’accentuazione della precarizzazione e del rischio-immersione.
Da ultimo, interessante notare che il maggiore
utilizzatore di lavoro a termine in Italia, la pubblica amministrazione, resta
fuori dalle nuove norme.
Mario Seminerio
Insomma, più che un “Decreto Dignità”, come
sostiene Carlo Stagnaro, sembrerebbe un “Decreto Rigidità”. Perché aumenta le
indennità di licenziamento per i contratti a tempo indeterminato ed opera un
giro di vite a quelli a tempo determinato. Il risultato non potrà che essere
opposto a quello che Di Maio intende raggiungere. Chi poteva essere assunto a
tempo indeterminato rischia di doversi accontentare di un contratto a termine e
una parte di quelli a termine rischia di sprofondare nel nero.
Nemmeno gli altri due aspetti del Decreto entrano
nel merito delle questioni strutturali. Le misure anti delocalizzazioni
sembrano misure anti localizzazioni: l’incentivo alle imprese è subordinato a
troppe condizioni e vincoli che rischiano di scoraggiare la richiesta stessa di
incentivi, penalizzando il Sud. Aspetto che ha senso se l’obiettivo è quello di
cancellare formule di finanziamento allegro, ma che non prevede alcuna forma di
agevolazione per l’impianto di nuove imprese e/o il consolidamento di quelle
esistenti.
Non meno rilevante è il terzo aspetto, quello
relativo al gioco d’azzardo. Il Decreto ne vieta la pubblicità solo per i
privati e non per il gestore pubblico. Il rischio rimane quello di tutelare
esclusivamente il gioco di Stato e, indirettamente, quello illegale. Un
esplicito rigetto politico alle libertà individuali in cui esiste solo lo Stato
e l’economia criminale. In mezzo nulla.
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