L’Unione europea costituisce, finora, l’unico esempio di
creazione di un contesto politico-istituzionale soprastatuale con il
dialogo e la cooperazione fra stati, senza cioè annessioni violente. Questo
nonostante la presenza di difetti e talvolta di contrapposizioni anche forti
tra i rappresentanti dei diversi stati. Il processo di integrazione europea
rappresenta l’evento storico più rilevante che questa nostra parte
dell’umanità ha conosciuto fino ad oggi.
La pace tra gli stati dell’Unione è il primo fondamentale beneficio.
E’ oggettivo anche il miglioramento generalizzato delle condizioni di vita e di
esistenza dei cittadini dell’Unione. L’attuale crisi non deve indurre a
rinunciare all’europeismo, ma a risolverne i problemi, rendendo migliore ed
uniforme il processo di crescita e sviluppo.
Il processo di integrazione europea, è ben lontano
dall’essere concluso e non è certo immune da pecche di varia natura. Ma
l’esistenza di queste ultime non può considerarsi motivo sufficiente per
rifiutarne il processo e quanto di buono ha finora prodotto, anche per le realtà
più marginali quali possono essere le aree deboli e quelle che esprimono le
nazionalità senza stato.
Anche se si limitasse l’analisi ai soli problemi di natura
socio economica, è appena il caso di notare come negli ultimi anni la maggior
parte delle risorse messe a disposizione delle aree deboli dell’Europa (e la
Sardegna, con i suoi comuni, è tra queste), provengono proprio dalla politica di coesione socio economica
dell’Unione europea. La partecipazione della Sardegna e delle sue realtà
territoriali al processo di unificazione dell’Europa è, in sostanza, il tema di
maggiore importanza per la politica sarda nel futuro a noi più vicino. Fino ad
ora, c’è stata una grave mancanza di interesse nei confronti di quanto a
Bruxelles e nelle città sedi di trattati si decideva, spesso interferendo anche
in materie per le quali la Sardegna ha potestà legislativa primaria. Una
potestà, va detto, di cui i governi centrali non hanno tenuto conto, assumendo
che la titolarità della politica estera è costituzionalmente in capo
all’amministrazione centrale dello Stato, ma contravvenendo alla norma
contenuta nello Statuto speciale che riconosce al Presidente della regione di interviene
alle sedute del Consiglio dei ministri, quando si trattano questioni che
riguardano particolarmente la regione.
In tutta l’Europa è in atto un movimento di regioni,
nazionalità e stati federali che tende a far riconoscere loro un ruolo autonomo
nella formazione delle decisioni europee. I governi degli stati nazione, con
gradi diversi di fermezza, per lo più si oppongono alla soggettività
internazionale non solo delle regioni “ordinarie”, ma anche di quelle legislative
e delle nazioni senza stato, temendo, a ragione dal loro punto di vista, che
ciò acceleri la definitiva crisi della loro stessa funzione. Se alla moneta
unica, seguiranno una politica estera unica, un’unica giustizia ed un esercito
europeo, niente resterà che non possa essere governato, con competenze più o
meno piene a seconda delle specialità e identità, dalle regioni che, in
un’ideale Europa dei popoli, dovranno essere referenti indirette nella
formazione delle decisioni europee.
Del resto, lo stato nazione non è più in grado di far fronte
a certe sfide globali, come: immigrazione clandestina, criminalità,
disoccupazione, esclusione sociale, iniqua redistribuzione dei redditi. A
nessuno di questi fenomeni un Paese può dare risposte isolatamente, come
riconosciuto dalla Commissione europea. Ed è superfluo, lo stato come lo
conosciamo, nella gestione del locale che c’è la tentazione di accampare o con
la espropriazione di competenze o con la negazione dell’esistenza stessa di
competenze legislative regionali.
La macchina autoreferenziale dello Stato, soprattutto oggi
che l’Unione europea è in grado di assicurare standard più alti di quelli
offerti dalle sue singole componenti, assorbe una enorme quantità di denaro per
la sua auto conservazione, sottraendolo a investimenti che potrebbero
agevolmente fare le regioni europee, tenute al rispetto delle stesse norme alle
quali sono soggette gli stati. La stessa Regione sarda appare centralista
rispetto al bisogno di trasferimento di nuove competenze ai Comuni. La partita
si giocherà tutta all’atto della abolizione funzionale delle provincie. Un
Comune forte, unito a comuni altrettanto forti potrà incidere nella scelta
finale.
Di qui la necessità, sempre più avvertita, del cosiddetto
“Stato leggero” che coordini entità fra loro federate, che smetta la finzione
ottocentesca della coincidenza fra stato e nazione, che riconosca la sua natura
plurinazionale (e oggi anche multietnica) e, infine, che difenda sì l’identità
nazionale maggioritaria, ma senza per questo negare o peggio contenere le altre
identità nazionali conviventi nel suo territorio.
È all’attenzione di tutti lo scarto di democrazia esistente
attualmente in Europa fra la tendenza positiva dell’Unione europea a disegnare
un quadro democratico di diritti di cittadinanza e la sua costruzione
autoritaria, per lo più fatta al di fuori del coinvolgimento di coloro che sono
stati nominati d’autorità cittadini europei. Anche l’allargamento dell’Unione a
ben vedere segue questo processo assolutistico.
La strada da percorrere è questa, tracciata dal progetto
nazionalitario.
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