venerdì 25 luglio 2014

I badanti in politica sono un peso da estirpare


‹‹Da troppo tempo i sardi lasciano che le sorti della propria Terra, ad ogni livello amministrativo, siano decise da altri. Hanno accettato che riforme importanti potessero imporre gli stessi effetti contemporaneamente in Val d’Aosta come in Sicilia, passando casualmente per la nostra Isola. Hanno rifiutato di progettare un percorso di crescita e di sviluppo socio-economico autonomo, preferendo sperare nell’assistenza di Stato. Tutto ciò ha creato drammi: anonimato, arretratezza, dissipazione di risorse e disoccupazione. Spetta solo ai sardi collaborare correttamente per costruire una Sardegna sovrana in cui l’autonomia non sia il fine, ma un mezzo per avviare un processo crescente e progressivo di autodeterminazione. Per fare ciò, ci vogliono comunità forti, determinate, cognitive, capaci di progettare e realizzare. Comunità che trovano nella pianificazione e nella prestazione dei servizi, le ragioni per unirsi orgogliosamente. L’attore primario di ogni realtà è la persona, che viene prima della società civile e della stessa famiglia. La persona per realizzarsi ha bisogno di istituzioni sociali rappresentative, capaci di spingere la Sardegna in una direzione piuttosto che in un’altra. Nessuna organizzazione sociale, nessun partito e nessun movimento devono sentirsi esclusi né titolari di verità assolute.

Lo scenario è la Sardegna, Nazione senza Stato. Lo Stato italiano non ha mai voluto riconoscere il valore intrinseco dell’identità, così come la classe dirigente non ha mai voluto smettere di barattare la sorte dei sardi con la loro personale affermazione politica. Troppo spesso si preferisce essere privilegiati anonimi a Roma piuttosto che protagonisti per la Sardegna anche attraverso la valorizzazione delle proprie comunità. Nel frattempo, ci sono aspetti della nostra esistenza che non possono essere vissuti passivamente. Ci sono situazione della vita che si manifestano in tutta la loro oscenità e crudezza. Non di tutto possiamo farcene una ragione specie quando si sconfina nel disumano. Uomini e donne violentate nella loro dignità; anziani - talvolta malati - ridotti a fonte di ingiusti guadagni e relegati nell’inutilità; bambini a cui si nega scientemente il futuro, preda dei bisogni più crudeli; l’ambiente devastato da biechi interessi; il dominio dell’illegalità. “Farsene una ragione”, considerandoci impotenti, non è la risposta all’ambizione di un mondo più giusto. L’individuo è quotidianamente intrappolato in un processo mediatico-formativo in cui spesso prevale l’effimero, la forma, la superficialità. Ma, anche conoscenza sostanziale che provoca spesso solo indignazione momentanea. La rassegnazione prevale nella convinzione che nulla potrà cambiare, alimentando la violenza, radicandola››

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